Sezione I “Essenza Lucano” – Poesia inedita
ispirata ai temi, alternativi tra loro, della Festa del Maggio, dei culti arborei e del rapporto tra l’uomo e l’albero
1° classificato – Mulinelli di zagare all’alba, Gino Rago
2° classificato – Tenacia vegetale, Giovanna Lojacono
3° classificato – La Quercia, Monica Baldini
Sezione II “Leonardo Sinisgalli” – Poesia inedita
ispirata ai temi di Sinisgalli antropologo: la poesia che scaturisce dall’urto con gli oggetti, simboli di culti primordiali; la mitologia domestica, la mitologia del luogo grezzo e sobrio. È nel luogo che meglio si leggono “le formule semplicissime che regolano il mondo”.
1° classificato – Siderea, Marco Onofrio
2° classificato – In questa ora, Michele Lionetti
3° classificato – Quan’è crè s penz (Rimandiamo a domani), Pietro Patimisco
Sezione III – Poesia edita
1° classificato – Le cose del mondo, Paolo Ruffilli
2° classificato – Sorvoli, Tiziano Broggiato
3° classificato – Spersi stupori, Lucio Macchia
Sezione I “Essenza Lucano” – Poesia inedita
Mulinelli di zagare all’alba – Gino Rago
Fatelo sapere alla Regina, ditelo
anche al Re: non abbiamo bisogno
di niente, né per la carne viva
né per lo spirito del tempo.
Siamo ricchi di noi,
dei profumi del sole nelle primavere.
E’ questo mare aperto
il poema di parole sull’acqua,
ci basta lo sciabecco a sollevare spume.
Olio e ferite, vino e fatica,
festa e camicia pulita,
sole a danzare sull’erba,
amore nelle mani quando cercano
altre mani, oblio di anemoni
sui nervi delle pietre,
mulinelli di zagare all’alba.
Ditelo alla Regina, fatelo sapere anche al Re:
non ci servono rubini
alle corone
né domandiamo le monete
d’oro: siamo ricchi di noi
per i canti nel cuore, la saggezza
del pane, la quieta sapienza del sale:
per le sciabole rosse
dei papaveri nel grano.
Tenacia vegetale – Giovanna Lojacono
Mentre non guardi
ti osservo
misuro ogni centimetro delle tue foglie
ne sfioro i profili laterali
i ricami delle nervature al centro.
Ti osservo
e tu t’inerpichi ostinata
nelle fenditure della roccia
nei solchi scuri e umidi di muschio dove nessun’altra si posa.
Ti osservo
e godo nel non conoscere
le strade che percorri.
La Quercia – Monica Baldini
Era una quercia
l’albero a cui davo rilevanza.
La sentivo robusta mi
apparteneva come il seme
ad una pianta
la sua forza
il tronco imponente
invincibile.
Ora sono miei gli alberi del
percorso dalle chiome stese
verdi luminose ricche di frutti dolci
teneri fiori mimose e peschi.
Loro a cui consegno sguardi
pensieri docili alla creazione
loro a cui m’accoccolo
mi lego in cuore.
Ho scoperto l’essenza
d’appartenere
d’essere creatura
la bellezza dell’unicità.
Quando al tramonto
i merli risuonano
di melodie sparse con le rondini in volo
e i papaveri e le camomille nei cigli
sfumano l’odore dell’erba tagliata del giorno
cammino e osservo le rose dell’albero
sbocciate rosee a maggio i pioppi lussureggianti
gli ulivi fecondi le betulle longilinee argentate.
Gli alberi innalzati reggono il passo
mi congiungono alla poesia della vita.
Sezione II “Leonardo Sinisgalli”
Siderea – Marco Onofrio
Impara dal lampo, segui la tua scia
sulla mappa delle cicatrici
ramificate ovunque nel boato
che incide, per l’oscurità
la voce senza tempo
dei giganti.
È il sogno-dazebao degli antenati
questo cielo di lacrime.
Dolore di tragedie accumulate
lungo incalcolabili distanze.
Eco silenziosa dei pianeti,
luce dei rimpianti.
Tremano, foreste verdazzurre
le nebulose delle costellazioni.
Sono sfingi le sorgenti sacre
in fondo alle caverne dei misteri
che non segnano le carte
sugli atlanti.
In questa ora – Michele Lionetti
In questa ora che da sé si dissacra, i contadini
appendono alle nuvole speranze, e gli occhi
al vento sempre sconfinante sopra i campi
dei vicini; in quest’ora c’è qualcuno
che prende a testate l’inchiostro delle sue distanze
da cui dice d’avere fatto nascere nuove Cine, nuovi elefanti…
Ma i contadini fanno suonare le maschere a Febbraio,
nei tempi di rimonda, fanno fischiare le loro schiene
come gobbe di respiri sotterrati nel canto delle spine,
schiene di legni che suonano ognuna il proprio invisibile ulivo:
‘il nostro fischio di fatica è il nostro destino’.
«Smettila!» «Non farlo più!» – dire dovrei
ai contadini, a chi scrive, a chi bagna la faccia nella luna;
proprio io che ho insegnato ai miei animali
ad annoiarsi a morte in casa: io che so che vibrano
topi dentro i nostri muscoli, volpi nelle cosce,
spaventapasseri alle ossa…
Ma in questa ora che da sé si dissacra,
l’infinito ci sbadiglia sulla nuca, e siamo felici
che la macchia di sangue venga via dalla camicia,
che dicano convinti che su Marte c’è un’impronta
vegetale; eppure, ancora ci dobbiamo affacciare
per qualcosa di davvero santo: affondare dobbiamo
le dita nelle tende, scorgere fuori, tra le piaghe.
(Ecco un poeta, tra le ascelle regge
zanne lunghe d’avorio; e poi contadini, i contadini con sacchi
colmi di soia; ‘dove vanno?’, hanno tutti un piede,
una zampa nella fossa: ‘dove credono d’andare?’,
mi dico; eppure, che è con quello, con quella zampa
che si esce via dal labirinto, dalla pelle del serpente,
che si esce vivi da chi ha imparato troppo a stare dentro).
Quan’è crè s penz (Rimandiamo a domani) – Pietro Patimisco
Quan’è crè s penz
Acc’sì sentev disc a tatà
quan la ser l’anim non riuscev a’rruccuà
E tutt la nott non durmev
c l penzier ca t’nev
E ‘ngap a me pnzav ca la vit d tatà
da irann i non l’egghia fa
Ca non è giustiz a vdè l crstian
trattat pegg du bestiam
Ca cialledda fredd dop 15 or d fatì
manc u ciucc l spport, crist mì
E ci ndall terr t ven nu dulor
ste’ la mazz du massar c fart passà u malor
No, chessa vit non l’egghià fa
putess perd u nom d pietrucc
ci egghià fatià com a nu ciucc
Prim d tutt è scì a scol
ca non egghia ess iommn d for
Ma n’ommn d dgnità
e la coppl da ingap nnanz a nsciun m lè luà
Quantè ver ca la nott ven dopp la dì
ci si sbagliat tu, non voggh sbaglià pur i
Quanta cos s penzn quant si è criatur
e po la vit piggh tutt n’avventur
O zappator o grand scienziat
quann la sciurnat è spicciat
Stanc o appanzanat, inda na reggia o ndau cason
priam a crist ca cre tutt n ve buon
Rimandiamo a domani
Rimandiamo a domani,
questo ripeteva mio padre la sera
quando sentiva i morsi della fame
e tutta la notte rimaneva sveglio
per colpa dei pensieri che l’assillavano
ed io in testa mia pensavo che da grande
non farò la vita di mio padre
perché non è giusto vedere le persone
trattate peggio delle bestie
perché un piatto freddo dopo 15 ore di lavoro
non è degno neanche di un asino, Gesù mio
e se osava lamentarsi per un dolore
la mazza del massaro era la soluzione
No, questa vita non la vorrò fare
Dovessi anche rimetterci i natali
ma non lavorerò come una bestia
Prima di tutto andrò a scuola
per non essere un uomo dei campi
Ma per diventare una persona importante
e il cappello davanti a nessuno toglierò
Quant’è vero che la notte viene dopo il giorno,
io non farò i tuoi stessi sbagli
Quanti pensieri si fanno da bambino
e poi comunque la vita prende la sua strada
O diventi zappatore o un grande scienziato
a fine giornata
O stanco o sazio, o in una reggia o in un casolare,
preghiamo Dio che domani le cose vadano
nel verso giusto
Sezione III – Poesia edita:
Le cose del mondo – Paolo Ruffilli
Di corsa, inseguendo se stessi,
la propria figura smarrita,
pensandosi in fondo lasciati
soltanto un poco più indietro.
E andando lanciati in avanti
metro su metro, in questo
spreco di sé nel mondo fuggendo,
intanto mutando in gara infinita
– intravista e perduta – la vita.
Sorvoli – Tiziano Broggiato
L’occhio sghembo della luna indugia a lungo
prima di schiudersi definitivamente
sull’umida parete della sera.
Spirito di se stessa che riflette le asperità
quotidiane, lei non tarda ad aprirsi confidando
che nel passaggio tra sguardo e cuore
quasi sempre si annida il tradimento.
L’aria intorno trema per quello che sta
per succedere: oltre la veranda, ai margini
della strada, qualcuno ha risolutamente deciso
di prendere fiato per poter richiamare a sé,
con un corno d’argento, tutte le vite finora negate.
Quello è mio padre che sta salendo le scale
con un caldo bouquet di sospiri destinato
a mia madre.
In silenzio l’oscurità gli ha cucito addosso
un abito bianco.
Spersi stupori – Lucio Macchia
Il tempo vivo
C’è un bagliore d’arancio alla soglia
dell’alba, un giorno nuovo in attesa.
E un residuo di sogno, agli alberi
avvolto, come un indugio d’oscuro.
La giovinezza è forse questo rimanere
stupiti, ignoranti, questo chiudersi
al mondo, eppure specchiarlo – e voler
vagare, e mettere più noia del dovuto,
e più distratta scoperta – semplice –
e polmoni e rabbia (e parole, nuove).
Ma non soltanto in noi, anche nell’aria
un certo tepore, e una brezza – canto
lieve, come un coro di tutte le cose.
Una spirale levata, un grido – stagione
di luce, verzura – tocco alla pelle del mondo.
Quella certezza lucente che possa essere
sempre salvato, quel che viene amato,
nel singolo istante – in ciascun grano di tempo –
quella cosa lì – dita protese – è la giovinezza.
